Di Matronae, patriarcato e piazze piene in cui hanno risuonato le nostre voci
La struttura patriarcale permea la società occidentale da millenni: prendendo spunto dal podcast Matronae, nel numero di oggi provo a riflettere sull'eredità antica e sull'importanza delle nostre voci
Pensavo che avrei ripreso la newsletter con un'intervista. In questi due mesi di assenza, ho abbozzato un nuovo piano editoriale, definito un po' di temi che vorrei trattare e elencato un po' di podcaster che mi piacerebbe contattare. Stavo per fare partire le prime email ai possibili intervistati, quando a metà novembre ho appreso della sparizione - e come si è poi saputo, del femminicidio - di Giulia Cecchettin.
Una storia di ordinario patriarcato
La sua storia di certo la conosci: l'avrai sentita ovunque, in TV, in radio, letta su internet. Giulia, 22 anni, originaria di Vigonovo (VE), studiava Ingegneria biomedica a Padova ed era a un passo dalla laurea. Filippo Turetta, ex fidanzato della ragazza, stessa età e iscritto alla stessa facoltà, era indietro con gli studi rispetto a lei. La sera dell’11 novembre, Giulia è stata rapita dal suo ex dopo aver trascorso con lui il pomeriggio al centro commerciale (per scegliere il vestito per la discussione della tesi e il menù della festa). Anche se i due si erano lasciati, erano infatti in buoni rapporti. Anche perché, lui, apparentemente depresso, continuava a minacciare il suicidio se lei lo avesse “abbandonato” e - come si è appreso da uno degli ultimi vocali di Giulia - lei si sentiva in dovere di essere presente per lui, per evitare che si facesse del male.
Alla fine, probabilmente a una settimana dal rapimento, Giulia è stata uccisa con numerose coltellate alla testa e al collo. Il suo corpo è stato coperto da alcuni sacchi neri e gettato ai piedi di una scarpata della val Caltea, non lontano dal lago di Barcis, in Friuli. Pare che la motivazione di tanta violenza sia stato il senso di inadeguatezza del ragazzo, ancora lontano dagli obiettivi universitari di Giulia.
Perché te ne parlo? Perché stavolta, molto più che in altri casi di femminicidio, la sua triste vicenda ha scatenato una riflessione collettiva importante sul ruolo del patriarcato e dei valori patriarcali nella società contemporanea e sul ruolo della voce delle donne. Una riflessione - e una rabbia - che ieri sono sfociate nelle piazze di tutta Italia in occasione delle celebrazioni del 25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.
La struttura patriarcale, in sociologia, è un sistema di valori, comportamenti, pregiudizi, radicato in uomini e donne. La società occidentale è basata su questa struttura da millenni. In essa, solo gli uomini detengono il potere, sono gli unici a poter ricoprire ruoli politici o dirigenziali, gli unici a cui è riconosciuta autorità morale, ad avere privilegi, a possedere proprietà private. In ambito familiare, padri, figli e parenti maschi sono gli unici a esercitare poteri e diritti. E anche quando le donne raggiungono obiettivi considerati maschili, come la guida di un governo o di un’azienda, lo fanno non perché siano riuscite a rompere il “tetto di cristallo”, ma all’interno della stessa struttura patriarcale, che concede ad alcune “prescelte” il posto d’onore, purché continuino a difendere il sistema imposto dal patriarcato, come ha brillantemente spiegato Michela Murgia nel suo libro Stai zitta.
È in questo contesto che la sorella di Giulia, Elena Cecchettin, ha definito Turetta - dipinto da tutti come un “bravo ragazzo” - non un pazzo e non un mostro, ma un "figlio sano del patriarcato". Lui doveva possederla, ma anche essere migliore di lei. Essere indietro con gli studi - e quindi, dimostrare minor intelligenza? - deve essere stato un affronto inaccettabile. Lui, abituato a essere servito e riverito dalla mamma, che gli stirava la tuta prima di andare agli allenamenti e gli preparava la cotoletta a pranzo (a 22 anni?!), probabilmente non ha retto il confronto con una donna intelligente, indipendente, libera. Più del suo no, la sua stessa esistenza e la sua stessa bravura andavano a offuscare e a negare la sua autorevolezza di uomo. Andava zittita. Per sempre. Prima della laurea. Prima della discussione della tesi. Prima che la sua voce la rendesse “più brava” di lui. (Lo stesso padre ha ipotizzato in un’intervista che “forse voleva sequestrarla per non farle dare la tesi”).
Matronae, un podcast per riflettere sulle radici del nostro patriarcato
La nostra società occidentale ha iniziato ad affrontare seriamente il tema del patriarcato e dei diritti delle donne solo a partire dalla Rivoluzione francese, mentre l’analisi critica delle radici del fenomeno, ben riconoscibili nella mitologia e nella letteratura greca e latina, è molto più recente. Come già accennato in un numero precedente della newsletter, è questa analisi che da un lato ci ha aiutati a individuare i problemi e le ingiustizie del patriarcato radicato nel nostro passato, e dall’altro ha stimolato per esempio la scrittura di romanzi, racconti, fiction che rimodulano o reinventano quello che sappiamo della storia e della mitologia, trasponendo nel passato atteggiamenti e rivendicazioni che sono invece sicuramente più contemporanee.
Uno degli ultimi tentativi di approfondire il ruolo e l’azione delle donne in un contesto patriarcale è il podcast Matronae. Lo avevo ascoltato quest’estate su richiesta di una delle autrici, senza però recensirlo. Ho deciso di farlo adesso, dopo averlo riascoltato quando è stato trovato a Barcis il corpo senza vita di Giulia Cecchettin.
La serie è stata realizzata in seno a un progetto dell'Università Ca' Foscari di Venezia, in collaborazione con GIEFFRA - Groupe International d’Etudes sur les Femmes et la Famille dans la Rome Antique, e il VeDPH - Venice Centre for Digital and Public Humanities, nell'ambito del progetto Women's lives, women's history, curato da Francesca Rohr Vio, docente di Storia Romana dell'Università Ca' Foscari.
Le autrici sono Sara Borrello, Letizia Nuncis, Elena Missaggia, Valentina Rossi e Chiara Valeri. Le ultime due hanno curato anche il montaggio e la produzione dello show.
Le cinque puntate esplorano il significato politico delle azioni di cinque matrone romane, dal periodo monarchico, fino alla tarda Repubblica. Si parla delle Sabine, che si sarebbero frapposte tra i padri e i nuovi mariti Romani per portare la pace e unire i due popoli; di Porcia, moglie del cesaricida Bruto, che si è fatta addirittura del male per dimostrare assoluta fedeltà al marito; di Servilia, madre di Bruto, ma anche amante di Cesare, che è intervenuta in una riunione privata per salvaguardare la vita del figlio; di Ortensia, oratrice che ha affrontato i triumviri per difendere i diritti e lo status di 1400 matrone romane a cui era stato chiesto di pagare le tasse; e infine di Giulia, madre di Antonio (braccio destro di Cesare e poi triumviro e nemico di Ottaviano) che si è opposta al figlio per difendere il fratello, accusato di tradimento.
I pro e i contro
Montaggio, audio, e produzione sono piuttosto buoni. La narrazione è avvincente e ben scritta e le voci narranti sono a mio avviso all’altezza del compito - mentre non lo sono sempre gli speaker scelti per la lettura delle fonti. Da notare, comunque, che Matronae è uno dei primi podcast universitari che fa parte di un progetto strutturato di divulgazione, elaborato in chiave narrativa.
In ogni puntata del podcast, sempre ben documentata dalle fonti latine o greche, si sottolinea come l’azione delle matrone, anche quando è collettiva, avvenga per difendere l’ordine costituito o i privilegi che ne derivano, e mai per metterlo in discussione. Le donne, anche quando agiscono in politica, lo fanno per difendere la famiglia, lo status sociale, persino lo Stato (nel caso delle Sabine), mai per emanciparsi o mettere in discussione il patriarcato. Quello, semmai, possiamo farlo noi oggi, con le nostre voci, le nostre azioni, il nostro impegno. Insomma, “alle donne romane, il patriarcato sta bene così e trovano escamotage per agire nelle sue pieghe”, sembrano suggerire le autrici. Il che, molto probabilmente, è vero.
Molto probabilmente.
La grossa critica che rivolgo a Matronae è che, per quanti sforzi facciamo, non possiamo sapere davvero cosa pensassero le donne descritte nel podcast, perché non abbiamo scritti di prima mano di nessuna di loro.
Il claim di Matronae è “il podcast che restituisce la voce alle donne dell’antica Roma”. Ma non è davvero così: le voci che ascoltiamo, attraverso la lettura attenta delle fonti, non sono le loro, sono quelle di uomini che hanno riportato le loro parole, a volte a secoli di distanza. L’unica fonte che si avvicina alla realtà è probabilmente Cicerone che, in una lettera, riporta le parole di Servilia ascoltate in prima persona. E, nelle lettere, si sa, è molto raro mentire.
Per il resto: quello delle Sabine è un mito di fondazione e ancora oggi (anche in questo podcast) si fa fatica a chiamarlo stupro di massa. Le fonti che ne parlano sono Livio, Dionigi di Alicarnasso e Ovidio, che scrivono tra I a.C. e I d.C. (piena epoca augustea di recupero dei “vecchi valori”), e Plutarco, tra I e II d.C. Di Porcia (I a.C.) parla sempre Plutarco che, come riportato dai libri di letteratura, si sa che si è documentato soprattutto su fonti greche. Di Ortensia (I a.C.), considerata una delle prime avvocate romane, parla Valerio Massimo, la cui opera (del I d.C.) è soprattutto una raccolta di exempla, ovvero di aneddoti, utili per elencare vizi e virtù. E di fatto non sapremo mai con che tono abbia pronunciato, nel 42 a.C., di fronte ai triumviri, la frase riportata da Appiano (II d.C) “Perché mai le donne dovrebbero pagare le tasse, visto che sono escluse dalla magistratura, dai pubblici uffici, dal comando e dalla res publica?”. Sempre di Appiano sono le parole di Giulia (I a.C.).
La ricostruzione della voce delle donne ha gli stessi problemi della ricostruzione della vita degli imperatori fatta attraverso fonti filo-senatorie (quindi, diremmo oggi, “di opposizione”). È filtrata dal pensiero di chi scrive. Se chi scrive è uomo, suo sarà per forza il punto di vista. Anche quando ammettiamo che nella Roma di fine Repubblica la struttura patriarcale era comunque introiettata anche dalle donne contemporanee, così come è introiettata da noi donne che viviamo nel XXI secolo e con la quale combattiamo ogni giorno. Non abbiamo scritti autografi di queste donne romane. Quello che sappiamo per certo è che la struttura patriarcale ha retto nei secoli, arrivando fino a noi, spesso con la stessa o addirittura con una maggiore violenza.
Proprio per questo, consiglio l’ascolto di Matronae: perché è una testimonianza interessante di quello che gli storici uomini hanno fatto dire alle donne che hanno fatto la storia, all’interno di un contesto dove la donna poteva parlare solo per difendere i diritti patriarcali.
La differenza sta nelle nostre voci: nel farle sentire e nel tenerne traccia
Tornando a Giulia Cecchettin e a tutte le vittime di femminicidio, tornando alla reazione delle donne di oggi al contesto patriarcale in cui ancora viviamo e che con fatica stiamo cercando di decostruire con l’aiuto di uomini che hanno compreso che questa struttura fa male anche a loro, l’unica cosa che possiamo fare è parlare, scrivere, comunicare. Lasciare traccia di noi, il più possibile. Urlare, perfino, come abbiamo urlato in tutte le piazze italiane, ieri, durante le manifestazioni del 25 novembre.
La voce, essere fonti scritte e parlate di noi stesse, è quello che ci differenzia dalle donne romane, del cui pensiero reale è stata cancellata ogni traccia. Ancora oggi, dopo duemila anni, bisogna evitare che altri dicano di noi quello che siamo o non siamo, quello che vogliamo, pensiamo, proviamo.
Nel podcast Matronae si fa cenno alla dea Tacita Muta, che un tempo era una ninfa e che si chiamava Lara. Le era stata strappata la lingua perché aveva osato rivelare a sua sorella Giuturna che Giove aveva una “cotta” per lei, rendendo così vani i suoi approcci. Le ha recentemente dedicato un post anche la storica Galatea Vaglio. Tacita Muta, per le donne romane, doveva essere un simbolo: dovevano stare zitte, perché nella cultura romana e in quella greca, la parola era prerogativa solo maschile.
Quello che è stato chiaro nelle piazze di ieri, colme anche di tantissimi uomini, è che la nostra voce è importante e ancora non è del tutto ascoltata. E se vogliamo una società più equa e più giusta, dobbiamo invece farla sentire. Tacita Muta viene invocata non solo tutte le volte che una donna viene uccisa o violentata, o abusata, ma anche quando viene insultata, abbordata con cosiddetti complimenti non richiesti, tutte le volte a cui le viene spiegato qualcosa che conosce bene, o le viene detto cosa dovrebbe dire, o scrivere.
Usiamo la nostra voce ancora di più. Facciamo in modo che Tacita torni a essere Lara, la ninfa chiacchierona che ha avvertito la sorella del pericolo.